Progetti

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    ambiente e territorio

    PROGETTI SPECIALI

    All’interno dell’Oasi WWF di Vanzago sono attivi diversi progetti:

    Il Bosco Magico nasce dal desiderio della fondatrice e responsabile del progetto Laura Salzani - mamma, educatrice, amante della vita in natura e comunitaria - di donare ai propri figli un percorso di crescita che valorizzasse la loro intrinseca motivazione ad apprendere e scoprire in base ai propri interessi e le proprie attitudini.

    Il progetto si concretizza nel 2020 grazie all’incontro con Andrea Maria Longo - Direttore dell’Oasi del WWF di Vanzago - condividendo la visione di benessere in natura e allo studio del valore dell’outdoor education, sviluppando l’identità formativa del progetto sulla Pedagogia del Bosco.

    La finalità sociale de Il Bosco Magico è contribuire al benessere delle nuove generazioni, alla loro possibilità di sperimentarsi fra responsabilità e libertà, alla formazione della loro coscienza ecologica.

    La ricchezza, la varietà e l’armonia di stimoli sensoriali, emotivi, fisici e cognitivi offerti dall’ambiente selvatico valorizzano l’esperienza formativa dei bambini e il loro approccio ai contesti sociali.

    Il Bosco Magico propone laboratori esperenziali permanenti di libera immersione nel selvatico dedicati a bambini da due a sei anni e percorsi in istruzione parentale di apprendimento partecipato in natura per bambini dai sei agli undici anni.

    Maggiori info: ilboscomagicodivanzago@gmail.com

     

    bosco magico oasi wwf vanzago

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    Regione Lombardia ha affidato alla Fondazione Wwf Italia la realizzazione e la gestione di un centro per la riproduzione ex situ di Rana latastei, Triturus carnifex e Pelobatesfuscus insubricus presso la Riserva Naturale e ZSC IT2050006 “Bosco Wwf di Vanzago”.

    Si tratta del primo centro di riproduzione per gli anfibi della pianura lombarda, che viene realizzato, nell’ambito del progetto Life Ip Gestire 2020 (azione C10).
    Il CENTRO è finalizzato a potenziare ulteriormente la popolazione di questi anfibi, per facilitare eventuali attività di restocking. A tal fine, è stato realizzato un locale idoneo, munito di diversi acquari di diverse capacità, muniti di tutto il necessario per la stabulazione temporanea di ovature e girini. Questa strategia permetterà la schiusa delle larve, in ambiente controllato e privo di predatori garantendo il 100% delle schiuse, difficili da ottenere in contesto naturale. Nasceranno circa 15.000 girini che saranno costantemente controllati e nutriti con appositi mangimi, verdure fresche e con altra vegetazione proveniente dalle aree umide presenti in sito. Dopo un primo periodo di circa 45 giorni di sviluppo, verranno progressivamente rilasciati all'interno di 3 stagni semi artificiali a loro dedicati.  Queste tipologie di stagni vengono prosciugati durante il periodo fine autunno-inizio inverno, per poi essere riempiti con acqua piovana a gennaio al fine di limitarne la predazione dei girini. Sono circondati da apposite barriere antintrusione, che eviteranno l’ingresso di predatori, e non lascino uscire i riproduttori. Al loro interno sono presenti trappole a caduta, che verranno attivate tutte le volte che sarà necessario per avviare un censimento della popolazione al suo interno.

    In particolare, il CENTRO ANFIBI si occupa di tre specie: Rana latastei, Triturus carnifex e Pelobate fuscus insubricus.

    Rana latastei
    Sebbene abbia un’area di distribuzione relativamente ampia, limitata in gran parte al nostro paese, la rana di Lataste è sottoposta a vari fattori di minaccia, che in alcuni casi hanno condotto a una notevole rarefazione o alla locale scomparsa della specie. La distruzione e frammentazione dei boschi planiziali, cui è tipicamente legata nella Pianura Padano-Veneta, e le alterazioni qualitative dei siti riproduttivi sembrano comunque le cause più rilevanti del suo declino.
    La Rana latastei figura nell’appendice II della «Convenzione di Berna» e negli allegati II e IV della «Direttiva Habitat» 92/43/CEE. Nella Red List dell’I.U.C.N. (2006) è assegnata alla categoria VU (vulnerabile), mentre nel «Libro Rosso» edito a cura del Wwf è considerata «minacciata».

    Triturus carnifex
    Risulta ancora comune o abbastanza comune in buona parte del nostro territorio, anche se in certe località è andato incontro a una rilevante rarefazione rispetto a poche decine di anni fa o addirittura all’estinzione. Le cause di minaccia sono più o meno le stesse evidenziate nella Rana di lataste; in alcune stazioni un notevole numero di esemplari resta vittima del traffico veicolare durante le migrazioni primaverili e autunnali. Questo tritone è inserito nell’appendice II della «Convenzione di Berna» e negli allegati II e IV della «Direttiva Habitat» 92/43/CEE; è inserito nella categoria NT (quasi minacciato) nella Red List dell’I.U.C.N. (2006). Il tritone crestato è considerato una " specie ombrello ": la protezione, il ripristino o la creazione di habitat per questa specie, avvantaggia molte altre specie animali e piante che occupano gli stessi habitat.

    Pelobate fuscus insubricus
    Particolare specie con abitudini fossorie che ne determinano l’oggettiva difficoltà di osservazione in natura. All’interno del suo areale, sta andando incontro ad un notevole declino e in numerose località in cui risultava relativamente comune è ormai scomparsa. I fattori che hanno determinato tale fenomeno sono da ricercare nelle profonde trasformazioni ambientali (crescente urbanizzazione e industrializzazione, mutati criteri di gestione delle aree agricole, inquinamento delle acque e del suolo, distruzione e alterazione di vario tipo dei siti di vita e di riproduzione, immissioni di ittiofauna alloctona, etc.), alle quali negli ultimi decenni si sono poi sovrapposti evidenti cambiamenti climatici, hanno avuto un peso determinante nella notevole rarefazione della specie. Nella pianura Padana, il Pelobate fuscus risulta raro e localizzato e ovunque minacciato, soprattutto per la scomparsa e la frammentazione degli ambienti adatti alla sua vita e riproduzione e per il fatto che la maggior parte delle località in cui è presente sono situate in aree a forte impatto agricolo. Il Pelobate fuscus insubricus figura nell’appendice II della «Convenzione di Berna» e negli allegati IV della «Direttiva Habitat» 92/43/CEE; è inserito nella categoria EN (in pericolo) nella Red List dell’I.U.C.N. (2006). Nel «Libro Rosso» edito a cura del Wwf la popolazione padana, è considerata «in pericolo in modo critico».

    Nella relazione tecnica è possibile conoscere tutte le attività del CENTRO in programma per il 2023:

    RELAZIONE TECNICA Centro Vanzago

    Fra i diversi interventi realizzati presso il "Bosco Wwf di Vanzago", al fine di incrementare la diversità biologica, rientra quello della creazione di nuovo zone umide come stagni e pozze.

    Considerate le condizioni in cui versano gli anfibi italiani, a causa della scomparsa progressiva dei loro ecosistemi, aggravate dalla siccità e dall'inquinamento e dall'avanzata inesorabile di specie alloctone invasive, si stanno sperimentando con successo, già da anni, diverse tipologie di pozze e stagni volte a tutelare la diversità biologica acquatica all'interno della riserva naturale del “Bosco Wwf di Vanzago”.
    Particolare interesse è stato rivolto verso le pozze temporanee, microambienti idonei per la riproduzione di talune specie di anfibi e rettili (Rana latastei e Triturus carnifex).

    Sono state realizzate già 30 aree, alcune simili a stagni e alle piccole pozze di pianura, che si formano nei prati o nel sottobosco allagate naturalmente dalle precipitazioni di fine inverno, e altre in fase di realizzazione.

    Come realizziamo un stagno per incrementare  la biodiversità?

    Dopo la progettazione, si definiscono le dimensioni e i confini dello stagno, disegnandone la forma sul terreno. Si preferiscono linee morbide e regolari, perché garantiscono una migliore stesura del telo impermeabile, minimizzando la formazione di pieghe e sovrapposizioni. Inoltre, le forme sinuose contribuiscono a dare maggiore naturalezza all’intera costruzione.

    Lo scavo
    Definiti i confini dello stagno, procediamo con lo scavo del terreno, a mano o con l’ausilio di mezzi meccanici. La profondità deve essere maggiore di 100 cm. Questa profondità è perfetta sia per gli anfibi che per le piante acquatiche, e inoltre ci permette di poter entrare facilmente per eseguire agevolmente i lavori di manutenzione.

    Preparare il terreno al telo impermeabile

    Una volta terminato lo scavo e prima di procedere con la stesura del telo impermeabile, è necessario preparare il terreno: eliminiamo detriti, sassi e radici presenti sul fondo che potrebbero forarlo. Successivamente, realizziamo uno strato protettivo per il telo, composto da coperte di lana. Una volta effettuato anche questa operazione, sarà il momento per stendere il telo impermeabile in PVC, a sua volta rivestito con geostuoia (rete tridimensionale), e ricoperta da uno strato di terra seminata a prato al fine di consolidare il terreno, ma anche per ricreare le condizioni di prato allagato. Per le pozze temporanee viene praticato un foro sul telo, e applicata una valvola per lo scarico, per il controllo delle acque.

    La realizzazione di stagni e pozze ha comportato un aumento esponenziale di tutte le specie anfibie della riserva. In particolare, per la Rana latastei, il conteggio delle ovature ha consentito di stimata una crescita della popolazione del 400% in quattro anni.

     

    50 erano complessivamente i capi nel 1983:  pochissimi rispetto alle migliaia di animali che fino a pochi decenni fa frequentavano i pascoli del nord Italia, sui versanti liguri, emiliani, piemontesi e lombardi che si affacciavano sulla piana del Po. Eppure è una vacca di razza, la Varzese-Ottonese-Tortonese.

    Un bovino di taglia piccola, rustico, dal parto semplice e dalla dieta frugale, ben adattato da secoli di convivenza con i pastori a criteri di allevamento brado o semibrado. Ed è questo che lo ha portato in rovina: il suo amore per i pascoli aperti. Perché certo non si tratta di un bovino per la produzione di massa, adatto alla stabulazione industriale, come lo desidera il mercato oggi.

    Così è andato in disgrazia e si è diretto verso l’estinzione, insieme ad un frammento di cultura contadina. Meno male che qualcuno se n’è accorto, ha scorto questa “reliquia” del passato, l’ha riconosciuta come Razza Bovina Autoctona e ne ha pianificato il riscatto, perché se anche non potrà più entrare nel mercato, almeno un buon numero di esemplari potranno conservare e trasmettere il loro patrimonio genetico ai posteri.

    Nel 2002 per volontà della direzione dell’Oasi “Bosco Wwf di Vanzago” e col sostegno del Settore Agricoltura dell’allora Provincia di Milano giunsero le due prime vacche varzesi a Vanzago. Vennero subito sistemate allo stato semibrado in un ampio pascolo all’interno dell’Oasi, dove con la loro presenza avrebbero contribuito a migliorare la biodiversità dell’area naturale: a fianco della piccola mandria vivono ora numerosi insetti coprofagi i quali a loro volta sono d’attrazione per uccelli insettivori come picchi, upupe ed assioli.

    Le manze, nate a Vanzago, sono state acquistate e/o donate da altrettanti allevatori e hanno generato nuovi nuclei di moltiplicazione della razza sul territorio della provincia di Milano.

    L’esperimento ha avuto successo su tutta la linea: oggi la razza non è più in pericolo !

    vacche varzesi bosco wwf di vanzago

    Il miele di Vanzago

    Fra le attività che si praticano all’interno dell’oasi c’è anche l’apicoltura. Sono due gli apiari posti ai margini dei prati, uno nella zona nord e uno in quella sud della riserva, entrambi composti da una ventina di alveari colorati di giallo, bianco, blu, verde bluastro, perché gli insetti riconoscano la loro casa. La scelta del luogo dove installare le arnie viene stabilita sulla base di alcuni fattori: importante è la vicinanza di piante nettarifere e fonti di polline (a Vanzago è il fiore di robinia la principale fonte di bottinamento delle api), dal momento che il raggio di ricerca di questi insetti è inferiore al chilometro, anche se può arrivare a 3-4 in caso di scarsità di fonti.

    Il fatto che nei dintorni non vi siano monocolture frutticole e cerealicole, che siano assenti rumori e vibrazioni, elettrodotti e campi elettromagnetici che solitamente deprimono la vitalità delle famiglie di api, è un fattore positivo per gli apicoltori dell’oasi, che traggono miele migliore e più abbondante dalle loro predilette.

    L’apicoltore di Vanzago inizia il suo lavoro in primavera. Per prima cosa risistema gli apiari reduci dall'inverno e studia la situazione delle famiglie che vi hanno svernato. A capo di ogni arnia c’è l’ape regina che ha il compito di deporre le uova e, nel periodo della sciamatura, abbandona la vecchia “casa” con una parte dei suoi “sudditi” per andare a formare un nuovo “regno”, lasciando il posto ad una nuova regina. Lei è facilmente distinguibile per via della sue dimensioni più pronunciate rispetto alle altre api, dovute all’addome dorato ed allungato. Ci sono poi i fuchi, i maschi dell’ape, poco numerosi e che hanno il solo compito, tutti insieme, di fecondare la regina. Hanno dimensioni più piccole di essa, ma più grandi delle altre api. E’ utile per l’apicoltore sapere che non pungono! Infine ci sono le api operaie, senza dubbio le più numerose. I loro compiti sono specifici, e normalmente variano con l’età dell’ape stessa. Alcune si occupano di tenere pulito l’alveare (spazzine), altre di nutrire le larve (nutrici), altre ancora della difesa (guardiane) e, le più esperte di procurarsi nettare e polline (bottinatrici). Sono di dimensioni ridotte se paragonate alla regina o ai fuchi, ma hanno delle ali ben sviluppate per poter volare lontano.

    Quando queste iniziano la loro attività, l’apicoltore, vestito adeguatamente con maschera, guanti e provvisto di un affumicatore, una leva ed una spazzola, si avvicina alle arnie per prelevare il miele. L’affumicatore serve per spruzzare fumo sull’arnia che si desidera aprire: le api pensando che si approssimi un incendio, si abbuffano di miele per avere più autonomia di fuga e si distraggono dall’intruso. L’apicoltore dell’oasi allora rimuove la pietra che funge da chiusura e con poche energiche sbuffate fa in modo di non far agitare le api; comincia quindi, aiutandosi con uno speciale coltello a tagliare i favi, cercando di fare il meno danno possibile. E’ opportuno evitare di asportare favi con covata oltre a valutare la forza della famiglia e le quantità di scorte a disposizione. Infatti togliere troppe scorte potrebbe voler dire condannare quelle api alla morte durante l’inverno.

    Man mano che raccoglie i favi cerca di togliere le api da sopra con l’aiuto del fumo e di una scopettina; poi li posa in delle vaschette coperti da della stoffa per evitare che le api vi ritornino sopra. Una volta terminata la raccolta rinchiude le arnie e si allontana. Una volta lontano può spremere i favi e filtrare il miele per eliminare le impurità più grossolane come pezzi di cera.
    Dopodiché ecco il buon miele d’acacia del Bosco WWF di Vanzago.

     

    Progetto di gestione sostenibile del territorio

    A chi inizia il percorso di visita nella riserva non possono certo sfuggire, in prossimità del Centro di Visita, i capannoni che custodiscono i trattori, le altre macchine agricole ed i magazzini per lo stoccaggio del foraggio e dei cereali, segno che nel bosco, o meglio, nei campi e coltivi che interrompono qua e là le zone alberate, viene praticata da tempo una vasta e continua attività agricola.

    Questo, pur in un contesto protetto come è l’oasi, non deve stupire; infatti se la campagna coltivata è una componente integrante dell’assetto naturale padano, in un’area che cerca di conciliare l’uomo e l’ambiente naturale, non può mancare una riproposizione sana del modello contadino.

    L’utilizzo delle risorse ambientali d’altronde può e deve armonizzarsi con la volontà di tutela di un territorio e casi diversi nelle pratiche agricole del passato confermano questo assunto. Spesso (purtroppo raramente negli ultimi decenni) gli interventi produttivi sulla natura da parte dell’uomo hanno avuto delle ripercussioni positive sull’ecositema, aumentandone la ricchezza e varietà. Basti pensare agli habitat semi-naturali, indispensabili a diverse specie animali e vegetali, che si costituiscono nei prati stabili, nelle marcite, nelle risaie, nei fontanili ma anche in qualsiasi campo di grano, di segale o di trifoglio.

    Il punto è ovviamente come si gestiscono questi ambienti. Fintanto che si irrorano con sostanze tossiche come disinfestanti e antiparassitari, essi risulteranno solo spazi sterili o letali per la vita in tutte le sue forme.

    Ma se si recupera la tradizione precedente, arricchita di un sapere agronomico attento alla dimensione ecosistemica, la cosa cambia e quella che abbiamo è un’agricoltura biologica. La filosofia che riposa dietro a questo diverso modo di coltivare non è perciò unicamente legata all'intenzione di offrire prodotti senza residui di fitofarmaci o concimi chimici di sintesi, ma appunto alla fondata volontà di non determinare impatti negativi sull'ambiente a livello di inquinamento di acque, terreni e aria.

    La bioagricoltura si basa sul principio ecologico dell'autorganizzazione, che descrive la capacità di un ecosistema agricolo di perpetuarsi da sé, senza interventi esterni, come in un ciclo chiuso: la fertilità del suolo è mantenuta grazie al lavoro di microorganismi e decompositori vari che esso stesso contiene e al riciclo interno del materiale organico prodotto (come concime) e non viene così integrata con fertilizzanti chimici provenienti dall'esterno. Importante a questo fine è anche considerare i tempi di riposo dei campi e la rotazione delle colture, alternando negli anni coltivazioni di frumento, orzo, avena, criticale, ed erbai di leguminose o graminacee per la produzione del foraggio che ricostituiscono la produttività del suolo. Per la semina poi si utilizza, come da millenaria tradizione, parte del raccolto precedente invece che acquistando sementi alloctone cosicché anche le malattie sono contrastate sfruttando le varietà locali, già immunizzate contro le piaghe presenti nella regione. D’alta parte i parassiti vengono controllati anche conservando i loro nemici naturali: la quantità delle larve e insetti dannosi all’agricoltura diminuisce con l’incremento del numero degli uccelli insettivori, che aumentano favoriti proprio dalla non tossicità delle loro prede.

    È davvero così: cessando di avvelenare il terreno non si è più costretti a farlo.

    L’obiettivo dell’intero ciclo è così certo quello di poter disporre di prodotti “biologici”, come il riso di Vanzago, che si offre alla vendita diretta nello stesso Centro visite, ma porta con sé i tanti benefici aggiunti: la conservazione delle tradizioni e tecniche colturali locali piuttosto che l'importazione di tecnologie e pratiche estere, la sperimentazione continua di metodi e criteri compatibili con l’ambiente, la tutela degli habitat e la ricostruzione di un paesaggio padano “ideale” utile da un punto di vista didattico e divulgativo.