Agricoltura biologica
A chi inizia il percorso di
visita nella riserva non possono certo sfuggire, in prossimità
del Centro di Visita, i capannoni che custodiscono i trattori,
le altre macchine agricole ed i magazzini per lo stoccaggio del
foraggio e dei cereali, segno che nel bosco, o meglio, nei campi
e coltivi che interrompono qua e là le zone alberate, viene
praticata da tempo una vasta e continua attività agricola.
Questo, pur in un contesto protetto come è l’oasi, non deve
stupire; infatti se la campagna coltivata è una componente
integrante dell’assetto naturale padano, in un’area che cerca di
conciliare l’uomo e l’ambiente naturale, non può mancare una
riproposizione sana del modello contadino. L’utilizzo delle
risorse ambientali d’altronde può e deve armonizzarsi con la
volontà di tutela di un territorio e casi diversi nelle pratiche
agricole del passato confermano questo assunto. Spesso (purtroppo
raramente negli ultimi decenni) gli interventi produttivi sulla
natura da parte dell’uomo hanno avuto delle ripercussioni
positive sull’ecositema, aumentandone la ricchezza e varietà.
Basti pensare agli habitat semi-naturali, indispensabili a
diverse specie animali e vegetali, che si costituiscono nei
prati stabili, nelle marcite, nelle risaie, nei fontanili ma
anche in qualsiasi campo di grano, di segale o di trifoglio. Il
punto è ovviamente come si gestiscono questi ambienti. Fintanto
che si irrorano con sostanze tossiche come disinfestanti e
antiparassitari, essi risulteranno solo spazi sterili o letali
per la vita in tutte le sue forme. Ma se si recupera la
tradizione precedente, arricchita di un sapere agronomico
attento alla dimensione ecosistemica, la cosa cambia e quella
che abbiamo è un’agricoltura biologica. La filosofia che riposa
dietro a questo diverso modo di coltivare non è perciò
unicamente legata all'intenzione di offrire prodotti senza
residui di fitofarmaci o concimi chimici di sintesi, ma appunto
alla fondata volontà di non determinare impatti negativi
sull'ambiente a livello di inquinamento di acque, terreni e
aria. La bioagricoltura si basa sul principio ecologico
dell'autorganizzazione, che descrive la capacità di un
ecosistema agricolo di perpetuarsi da sé, senza interventi
esterni, come in un ciclo chiuso: la fertilità del suolo è
mantenuta grazie al lavoro di microorganismi e decompositori
vari che esso stesso contiene e al riciclo interno del materiale
organico prodotto (come concime) e non viene così integrata con
fertilizzanti chimici provenienti dall'esterno. Importante a
questo fine è anche considerare i tempi di riposo dei campi e la
rotazione delle colture, alternando negli anni coltivazioni di
frumento, orzo, avena, criticale, ed erbai di leguminose o
graminacee per la produzione del foraggio che ricostituiscono la
produttività del suolo. Per la semina poi si utilizza, come da
millenaria tradizione, parte del raccolto precedente invece che
acquistando sementi alloctone cosicché anche le malattie sono
contrastate sfruttando le varietà locali, già immunizzate contro
le piaghe presenti nella regione. D’alta parte i parassiti
vengono controllati anche conservando i loro nemici naturali: la
quantità delle larve e insetti dannosi all’agricoltura
diminuisce con l’incremento del numero degli uccelli insettivori,
che aumentano favoriti proprio dalla non tossicità delle loro
prede. È davvero così: cessando di avvelenare il terreno non si
è più costretti a farlo.
L’obiettivo dell’intero ciclo è così certo quello di poter disporre di prodotti “biologici”, come il riso di Vanzago, che si offre alla vendita diretta nello stesso Centro visite, ma porta con sé i tanti benefici aggiunti: la conservazione delle tradizioni e tecniche colturali locali piuttosto che l'importazione di tecnologie e pratiche estere, la sperimentazione continua di metodi e criteri compatibili con l’ambiente, la tutela degli habitat e la ricostruzione di un paesaggio padano “ideale” utile da un punto di vista didattico e divulgativo.